Rischio di portafoglio e approccio ESG

La direttiva europea 2341 del 2016 detta IORP II (dove la sigla sta per Institution for Occupational Retirement Provision) ha introdotto importanti novità nella regolamentazione dei fondi pensione, che sono state recentemente recepite in Italia con una revisione del Decreto legislativo 252 del 2005. Una di queste è la necessità, per gli enti previdenziali, di tenere conto dei fattori di rischio “ESG” nella gestione del portafoglio d’investimento.
L’articolo 25.2 (g) della direttiva prevede infatti che “il sistema di risk management dello IORP dovrà comprendere, fra l’altro e dove applicabili, …i rischi ambientali, sociali e di corporate governance relativi al portafoglio di investimento e alla sua gestione”. Non solo. La direttiva prevede che i fondi pensione, se tengono conto dei fattori ESG nel processo di investimento, devono anche, nella redazione periodica nel documento di “Own Risk Assessment” (O.R.A.) tenere conto dei “nuovi rischi emergenti derivanti dal cambiamento climatico … e dal deprezzamento di assets dovuto a cambiamenti nella regolamentazione”.
Il recente documento di discussione diffuso dall’EIOPA (1) cerca di tracciare alcune linee guida in una materia che, per stessa ammissione del regolatore europeo, è ancora da definire in molti suoi aspetti.
Lo stesso tema del “rischio” non è ancora completamente definito. Da un lato EIOPA scrive che i rischi ESG “non andrebbero limitati ai rischi di mercato (incluso rischio di credito) ma dovrebbero includere anche categorie rilevanti nelle quali questi rischi di manifestano, come rischi operativi, reputazionali, di business e strategici” (pag. 5).
Dall’altro lato riconosce che è ancora difficile misurare l’impatto finanziario di maggiori o minori rischi ESG e che, per ora, dovranno essere utilizzati metodi indiretti, come l’assegnazione di punteggi a ciascun emittente detenuto in portafoglio (e, aggiungiamo, al confronto del punteggio medio del portafoglio con quello di un indice benchmark).
Infine, però, il rischio appare nella sua accezione standard di volatilità da remunerare con adeguati rendimenti finanziari. Riproduciamo interamente il passo: “Un modo di mitigare l’esposizione ai rischi ESG è ridurre l’allocazione o sottopesare assets che ricevono punteggi bassi in termini di metriche ESG o seguire un approccio “best in class”, cioè incorporando i fattori ESG nelle decisioni di investimento. Gli IORPs dovrebbero verificare e convincersi che le modifiche del portafoglio d’investimento prodotte da questi interventi migliorano la caratteristiche del portafoglio in termini di rischio rendimento.
Ridurre l’allocazione a certi assets – o escluderli – potrebbe avere un impatto negativo sulle capacità di diversificazione del portafoglio. Inoltre, la crescente popolarità dell’approccio ESG all’investimento potrebbe spingere al rialzo il prezzo degli emittenti che ricevuto punteggi favorevoli nelle metriche ESG o addirittura provocare “bolle verdi”. Di conseguenza, l’azione di mitigazione del rischio potrebbe peggiorare il profilo rischio-rendimento del portafoglio invece di migliorarlo. In conclusione, la prima responsabilità degli IORP è investire nel migliori interesse a lungo termine dei suoi aderenti e beneficiari (prudent person rule) massimizzando i rendimenti (al netto dei costi) per un dato livello di rischio.” (pag. 5 e 6).

A questo punto sorge spontanea la domanda: ma esistono “rischi ESG” che si manifestino in modo evidente in un portafoglio azionario diversificato?

Rispondere è abbastanza facile perché negli ultimi anni le società che producono gli indici azionari utilizzati come benchmark dagli investitori istituzionali hanno creato famiglie di indici costruiti seguendo criteri più o meno restrittivi di esclusione basati su criteri ESG.
La tavola seguente contiene i valori di rendimento, volatilità e indice di Sharpe (un indicatore di capacità di un portafoglio di offrire rendimento per unità di rischio) di alcuni indici azionari costruiti seguendo criteri di investimento responsabile o “ESG”.
A ciascun indice ESG è affiancato o l’indice azionario globale MSCI World o l’indice dal quale è ricavato il corrispondente indice ESG.

Figura_1

Poiché gli indici ESG hanno date di origine diverse, i confronti con gli indici di base sono ripetuti a coppie utilizzando di volta in volta la vita massima di ciascun indice.
Dall’esame della tavola emerge un primo dato interessante e noto: gli indici ESG non hanno rendimenti significativamente diversi da quelli originali. In sostanza, seguire una politica di investimento ESG non ha un impatto significativo sul rendimento del portafoglio e, soprattutto, questo impatto non è negativo.
L’altro dato interessante riguarda il rischio.

Spesso si cerca di promuovere l’adozione di criteri ESG facendo leva sul fatto che ciò ridurrebbe il rischio di portafoglio, e questo, probabilmente, è il motivo per l’inserimento di questi temi nell’ambito delle attività di risk management, anziché, ad esempio, nella trattazione dei doveri degli investitori a lungo termine (2).
Eppure, come si può vedere dalla tabella, le volatilità annualizzate degli indici ESG sono molto simili, come simili, e non significativamente diversi, sono gli indici di Sharpe degli indici ESG e dei corrispondenti indici di partenza. Insomma, se anche tavolta le strategie ESG sembrano offrire rendimenti uguali o leggermente superiori, le volatilità di questi indici sono anch’esse simili o superiori, col che l’efficienza dei portafogli non cambia.
Dati di maggior dettaglio si trovano nella tabella seguente, contenuta in un paper di MSCI (3) dal quale emergono differenze marginali di rischio a favore degli investimenti ESG, e maggiori a favore dell’indice MSCI AC più restrittivo, ma nessuna statisticamente significativa.

Figura_2

Una possibile spiegazione di queste limitate differenze sta in un’altra tabella contenuta nello stesso articolo, che descrive i tre indici MSCI All Countries utilizzando numerose metriche ESG. Il dato che colpisce è che le attività da escludere pesano molto poco in termini assoluti (tabacco e armi controverse 2% di esposizione contro 0% dell’indice ESG Leaders) o relativi (l’indice di base ha un’esposizione a carbone e petrolio, i cosiddetti “stranded assets” pari al 7,1% mentre l’indice ESG leaders ha un’esposizione del 4,5%).

Figura_3
Può darsi dunque che la limitata riduzione di rischio sia attribuibile alla modalità di costruzione degli indici o che, più semplicemente, le attività che si vogliono escludere pesino complessivamente poco.
Rimane il fatto che, per ora, fra tante ragioni valide per farlo, la riduzione del rischio del portafoglio non appare la motivazione di base per integrare i fattori ESG nella gestione.

  1. EIOPA, “Draft Opinion on the Supervision of the Management of Environmental, Social and Governance Risks by IORPs”, 15 febbraio 2019.
  2. In realtà la direttiva 828 del 2017 sull’incoraggiamento dell’impegno a lungo termine degli azionisti, integra alcune tematiche ESG quando chiede agli IORP di pubblicare le proprie politiche di “engagement” con le società presenti in portafoglio.
  3. Giese G., Lee L., Melas D., Nagy Z., Nishikawa L. (2018) “Foundations of ESG Investing – Part 2: Integrating ESG into Benchmarks, MSCI Research Insight, Maggio 2018
Posted in ESG, IORP II | Leave a comment

Il miracolo delle medie mobili

Spesso fra i meriti degli investimenti “alternativi illiquidi” si cita la loro scarsa correlazione con le asset class liquide, e soprattutto con il mercato azionario.
In realtà numerosi studi mostrano che gli investimenti alternativi illiquidi sembrano de-correlati e meno rischiosi solo perché vengono valutati con minore frequenza (1 o 2 volte all’anno) e utilizzando valori di perizia (salvi ovviamente tutti i flussi di cassa generati dagli investimenti). Si dice che vengono “smoothed”, cioè “spianati” o “levigati” rispetto a rendimenti calcolati più frequentemente su prezzi di mercato.

Per stimare quali potrebbero essere i rendimento effettivi sottostanti alle serie “ammorbidite” dei NAV dei fondi chiusi si utilizza una formula proposta da uno dei primi studiosi che si sono occupati del problema, con riferimento al mercato immobiliare americano (Geltner 1993) (1). La formula utilizza come input l’autocorrelazione dei rendimenti della serie “spianata” e ne ricava la presumibile serie di partenza.

Se si correggono prezzi e rendimenti gli investimenti alternativi illiquidi per tenere conto dello “smoothing” la capacità di diversificazione si riduce fortemente, al punto da indurre gli autori di un recente paper (Welch e Stubben 2018) a parlare di “Private Equity’s Diversification Illusion” (2).

Pedersen e altri (3), ad esempio, mostrano che tenendo conto dello “smoothing” e della esposizione ai fattori di rischio sottostanti, la volatilità e il beta degli alternativi illiquidi verso il mercato azionario sono molto più alti di quanto non appaia.

Per dare un’idea del potere miracoloso su volatilità e correlazioni dello smoothing, proponiamo questo semplice esempio.

Il grafico seguente rappresenta l’evoluzione nel tempo della correlazione con l’indice azionario europeo di tre serie di rendimenti di investimenti “alternativi illiquidi”, e cioè infrastrutture, immobiliare e private equity.

Picture1

Come si può vedere le tre serie sono estremamente efficienti, perché hanno una correlazione con l’indice azionario inferiore a 0,2, una volatilità molto contenuta e un rendimento storico in linea con quello delle azioni (manca il “premio per l’illiquidità” ma direi che gli altri valori bastano a rendere questi investimenti veramente utili in un portafoglio).

A quali indici di “private assets” fanno riferimento questi dati? A nessuno.
Le tre serie sono ricavate prendendo tre indici di azioni quotate nei settori infrastrutture, private equity e immobiliare europeo (4), facendone la media mobile a 12 mesi e calcolando poi i rendimenti mensili di queste nuove serie e le loro correlazioni con l’indice delle azioni europee.
I tre indici originali sono ben poco “alternativi” perché hanno volatilità e correlazioni elevate con l’indice azionario europeo, essendo comunque composti da azioni europee. Ma la media mobile fa miracoli.
Come si può vedere dalla tabella, le volatilità si riducono di oltre la metà e le correlazioni a un terzo di quelle misurate sui dati mensili.

Picture2

Il che porta a qualche riflessione.
Da un lato, molti ritengono che la vera, ultima ragione per la domanda di private equity non il premio per l’illiquidità ma una sorta di “premio per la spalmatura”, che riduce le pene del gestore del fondo pensione quando le azioni quotate crollano. Come sostengono gli autori di un paper appena uscito (5), considerando che il premio di rendimento atteso offerto dal private equity rispetto all’azionario quotato è sempre più basso, se non nullo, questa è la possibile spiegazione di una domanda istituzionale apparentemente insaziabile.
Dall’altro lato, l ’argomento potrebbe essere utilizzato nel senso opposto, per valutare con minore apprensione le oscillazioni dei mercati azionari. E cioè, se basta una media mobile per fare apparire meno volatile una asset class, e se sappiamo che quell’investimento rimane nel portafoglio dell’investitore diversi anni, il metodo di contabilizzazione “mark to market” dei titoli quotati può essere fuorviante e andrebbe affiancato con un indicatore più mediato.

(1) Geltner, David. 1993. “Estimating Market Values for Appraised Values without Assuming an Efficient Market.” Journal of Real Estate Research, vol. 8, no. 3 (Summer):325–345.
(2) Welch K. , Stubben S. (2018) “Private Equity’s Diversification Illusion: Evidence from Fair Value Accounting”
(3) Pedersen, Page, He (2014) “Asset Allocation: Risk Models for Alternative Investments “, Financial Analyst Journal, 2014, 3
(4) Gli indici utilizzati sono: DJ Brooksfield Europe Infrastructure (DJBEIET), LPX Europe Listed Private Equity (LPXEURTR), FTSE NEPRA NAREIT Developed Europe (NEPRA)
(5) Illmanen A., Chandra S., McQuinn N. (2019) “Demystifying Illiquid Assets: Expected Returns for Private Equity” AQR Whitepaper 1Q19

Posted in Medie mobili, Private assets | Leave a comment

Fondi pensione: contrarian o trend followers?

L’asset allocation strategica, cioè il peso assegnato alle diverse asset class in un portafogli, è la scelta più importante per un investitore, individuo o istituzione.
Ma la differenza dei rendimenti fra le diverse asset class, soprattutto dei mercati azionari, fa sì che nel corso del tempo i pesi assegnati cambino come semplice conseguenza delle variazioni dei prezzi.
Perciò, se l’investitore vuole mantenere costante nel tempo l’allocazione, deve ribilanciare, cioè vendere le asset class il cui peso ha superato il massimo previsto e comprare quelle il cui peso è sceso.
Questa attività non è ne’ semplice ne’ banale come sembra.
Innazitutto perché ponendosi in posizione contraria (“contrarian”) all’andamento del mercato, l’investitore assume che i rendimenti abbiano la tendenza a ritornare verso la media (“mean reversion”). La strategia di vendere o comprare quando qualcosa è salito o sceso “troppo” offre un premio se quel qualcosa poi scende o risale.
Se ciò non accade e i mercati salgono o scendono per un lungo periodo (“trend”) la strategia porta a ridurre o aumentare l’esposizione rinunciando a profitti o accumulando perdite in modo non lineare rispetto al mercato (“concavità”).
Non solo occorre pensare che i rendimenti tornino verso la media, ma lo si deve credere anche della volatilità. Quando i mercati scendono la volatilità aumenta perciò se l’investitore compra e riporta il peso delle azioni al loro valore strategico aumenta, per lo meno nel breve termine, il rischio del portafoglio.
Infine ci sono i costi di transazione. I benefici offerti dal ribilanciamento possono venire annullati o ridotti dai costi che si sostengono per vendere o comprare, cioè le commissioni esplicite o implicite di negoziazione e il cosiddetto “market impact”, la variazione di prezzo sfavorevole causata dagli acquisti e dalle vendite.
Nel caso di investitori “in fase di accumulo” come i fondi pensione negoziali italiani, i costi sono contenuti perchè si può ribilanciare indirizzando i flussi di contributi verso le asset class penalizzate, senza bisogno di vendere quelle che si sono apprezzate. Negli altri casi, invece, il ribilanciamento va fatto con vendite e acquisti. Il costo può essere ridotto se l’investitore è in grado di vendere e comprare nei momenti di massima euforia o panico, ma questo non accade in tutti quei casi in cui il ribilanciamento è “calendarizzato”, realizzato cioè a scadenze prestabilite (mese, trimestre).
Esiste perciò una vasta letteratura che cerca di trovare il compromesso ottimale fra le diverse esigenze: mantenere sotto controllo il rischio di portafoglio, incassare il premio di ribilanciamento, non perdere i trend, non spendere troppo.
Un recente articolo di due studiosi olandesi affronta l’argomento dal punto di vista di investitori a lungo termine (1) .
Le conclusioni dello studio, basato su simulazioni, sono queste:
– In assenza di costi di transazione il ribilanciamento continuo è ottimale, ma produce benefici a lungo termine (20 anni) molto contenuti;
– Se si tiene costo dei costi di transazione i benefici si perdono e diviene conveniente ribilanciare con minore frequenza (da tre mesi a un anno);
Queste conclusioni dipendono dai valori dei parametri che utilizzano nel modello di simulazione. Se il premio per il rischio è alto, cioè se le azioni rendono mediamente più delle obbligazioni, il costo di ribilanciare meno frequentemente è più alto. Se il peso delle azioni è basso, il costo opportunità del non ribilanciamento è basso.
Un modello più complesso (Vector Auto Regression), che cerca di simulare l’evoluzione dei rendimenti tenendo conto delle correlazioni fra azioni e obbligazioni, del rapporto dei rendimenti correnti con quelli passati e della tendenza alla “mean reversion”, conferma l’utilità di ridurre la frequenza del ribilanciamento. L’esistenza di un elemento di trend dei mercati sulle frequenze più brevi rende efficiente ribilanciare a intervalli di un anno o più, anche se gran parte dei benefici si ottengono fra tre e sei mesi.
Insomma, è utile ribilanciare in modo sistematico. Ma cosa fanno effettivamente i fondi pensione?
Alla domanda risponde uno studio, anch’esso di provenienza olandese (2) , che esamina un database contenente osservazioni di asset allocation di 978 fondi pensione (prevalentemente a prestazione definita) su un periodo di 21 anni, dal 1990 al 2011. Il database è costruito dalla società CEM Benchmarking di Toronto, specializzata nell’analisi dei costi di gestione, e comprende Stati Uniti, Canada ed Europa, oltre a qualche fondo australiano e neozeolandese.

Gli autori verificano l’attività di ribilanciamento da parte dei fondi pensione e trovano una serie di risultati interessanti:
• I fondi pensione ribilanciano, cioè reagiscono alle variazioni del peso delle diverse asset class causato dall’evoluzione dei prezzi;
• i fondi non ribilanciano immediatamente, e, quando lo fanno, non riportano mai il peso dell’asset class al suo peso strategico;
• i fondi hanno un comportamento asimmetrico, e ribilanciano più rapidamente quando il peso delle azioni scende in conseguenza di una discesa dei prezzi che non quanto il peso sale in conseguenza di un rialzo. In altri termini sono “trend followers” quando i mercati vanno bene ma diventano “contrarian” quando i mercati vanno male. I fondi pensione si rivelano perciò operatori anticlici e fornitori di liquidità al mercato.
• Questa osservazione non è scontata. Dopo un crollo del mercato azionario, infatti, un fondo a prestazione definita può trovarsi nella condizione di non poter comprare perché la riduzione del valore dell’attivio riduce il suo “funding ratio” e dunque la sua capacità di assumere rischi.
• Infatti, non accade sempre così. Gli autori trovano che i fondi pensione americani (con maggiori problemi di “funding”) ribilanciano con minore velocità e confermano l’evidenza di altri studi, secondo la quale negli Stati Uniti nel periodo 2008/2009 i fondi pensione a prestazione definita furono venditori netti, anziché acquirenti di azioni (3).
• Oggetto del ribilanciamento sono soprattutto le attività liquide, il che è prevedibile, visto che, per definizione, le attività illiquide non sono acquistabili o cedibili sul mercato secondario (quanto meno non lo sono con la stessa velocità delle azioni).
Due studi recenti studi sui fondi italiani offrono interessanti elementi di valutazione su questi stessi argomenti.
Il primo è uno studio di Mauro Maré e Antonello Motroni del Mefop sulla movimentazione del portafoglio titoli di 14 fondi negoziali nel periodo 2005 – 2012 (4).
I due autori confermano che nel complesso, i fondi italiani hanno un approccio “contrarian”, spiegabile anche con la diffusione delle gestioni “a benchmark” che spingono naturalmente al ribilanciamento.
L’analisi è resa più difficile perché nel periodo 2005/2012 il peso delle azioni nel
patrimonio dei 14 fondi negoziali oggetto di analisi è sceso, passando dal 21,7% del 2005 al 14,6% del 2012. La riduzione di peso più importante, di 5 punti percentuali, è fra 2007 e 2008, ma all’impatto del crollo dei mercati del 2008 si aggiunge, negli anni successivi, la diffusione dei comparti garantiti a spese di comparti bilanciati che costituivano l’offerta fino al 2007.
L’analisi econometrica fa però emergere risultati opposti rispetto a quelli dello studio di Bams, Schotman e Tiyagi, perché i fondi italiani manifestano un comportamento “contrarian” nel ribilanciare quando il peso delle azioni supera l’allocazione obiettivo, mentre appaiono molto più esitanti nel ricomprare quando i prezzi scendono.
Ciò non stupisce, se si considera che nei fondi pensione negoziali l’attenzione del regolatore è concentrata più ad evitare l’assunzione di rischi oltre i limiti fissati nei documenti pubblici che non ad assicurare che vengano rispettati livelli di rischio minimo.
Il secondo studio sembrerebbe smentire, almeno nelle intenzioni, questo atteggiamento. Il Rapporto sui Fondi Negoziali 2012 (5) , pubblicato da Assofondipensione e presentato all’assemblea dell’associazione tenuta lo scorso 12 dicembre riporta un’analisi delle risposte date dai 9 fondi negoziali italiani nell’ambito dello stress test EIOPA 2017. Una domanda del questionario chiedeva se e come i fondi avrebbero ribilanciato il portafoglio dopo lo “shock avverso” (che, ricordiamo, prevedeva un crollo dei mercati azionari superiore al 40%). Solo 2 fondi su 9 hanno dichiarato di avere una procedura di ribilanciamento automatico, ma molti altri lo farebbero comunque nei mesi successivi. “Guardando alle decisioni che effettuerebbero i diversi fondi negoziali italiani nel caso si verificasse lo scenario avverso ipotizzato della ricerca dell’EIOPA – scrive il rapporto – emerge in modo inequivocabile la decisione di aumentare i titoli azionari quotati in portafoglio” da parte di 8 dei 9 fondi, mentre solo 1 lascerebbe invariata l’allocazione.

  1. Driessen J., Kuiper I. (2017) “Rebalancing for long term investors” Netspar Academic Series – DP 02/2018-025
  2. Bams D., Schotman P., Tyagi M. (2016) “Asset allocation Dynamics of Pension Funds”, Netspar Academic Series – DP 03/2016-016
  3. Il caso più famoso è quello del grande fondo CalPERS che nel 2008 si trovò in una grave crisi di liquidità e dovette vendere le azioni.
  4. Marè M. – Motroni A. (2017) “Le strategie di investimento dei fondi pensione: contrarian o momentum?” in Finanza e previdenza: i fondi pensione e la sfida dei mercati, a cura di Riccardo Cesari e Mauro Marè, Il Mulino, 2017.
  5. Assofondipensione (2017) Rapporto sui fondi pensione negoziali 2017
Posted in Constant mix, Contrarian, Ribilanciamento, Trend-following | Leave a comment

Cosa è successo alla volatilità dei mercati azionari?

Come noto, fra la fine di gennaio e l’inizio di febbraio l’indice S&P 500 ha avuto in pochi giorni (dai massimi del 26 gennaio ai minimi del 8 febbraio) una perdita di oltre il 10%.
L’improvvisa correzione si è associata a un aumento della volatilità, che è passata da valori di fine anno inferiori a 10 a un massimo di oltre 50, l’8 febbraio, quando ha chiuso a 33.
La crisi sembra già rientrata: a venerdì 23 febbraio l’indice VIX è intorno a 17, più di due punti sotto la sua media storica dal gennaio 1990.

L’aumento di volatilità è stato inatteso?

No. Come già avevamo osservato in un altro post del 24 settembre (“La paura è ai minimi ma gli investitori non ci credono” 1) negli ultimi mesi dell’anno l’indice SKEW, calcolato dal mercato CBOE, era ai massimi di tutta la sua storia. Ricordiamo che questo indice misura quanto maggiore è il costo relativo di opzioni “out of the money” rispetto ad opzioni “at the money” in termini di volatilità implicita. In altri termini, misura la domanda di protezione da eventi estremi, che gli investitori soddisfano comprando opzioni put con un prezzo di esercizio molto più basso di quello attuale, in modo da spendere meno. Ma la pressione della domanda per queste opzioni che costano poco ne aumenta il prezzo in termini relativi, misurato in termini di volatilità implicita.
Non solo. Proprio a novembre due economisti della FED di New York (2) avevano pubblicato uno studio nel quale calcolavano il “volatility risk premium” cioè la differenza fra la volatilità implicita delle opzioni con un anno e un mese di durata residua (quelle utilizzata per il calcolo dell’indice VIX) .
Come si può vedere dal grafico 1, la differenza era positiva e negli ultimi mesi si collocava anch’essa sui valori massimi storici.

Grafico 1

New Picture (3)

Il fenomeno si riscontrava anche sulla differenza fra i valori dell’indice VIX3M (opzioni con scadenza 3 mesi, pubblicato giornalmente dal CBOE) e dell’indice VIX: per tutto il 2017 la differenza ha oscillato fra 2 e 3 punti, contro un valore medio dal 2002 di poco superiore a 1 (grafico 2).

Grafico 2

New Picture (4)

Come si sono comportate le strategie di vendita della volatilità?

Il principale colpevole della correzione degli indici e dell’aumento di volatilità è stato individuato nelle strategie di vendita della volatilità (direttamente sul contratto future dell’indice VIX, con “variance swaps” o vendendo opzioni su indici), strategie che si basano sulla constatazione che, storicamente, la volatilità implicita nei prezzi delle opzioni è sempre stata più alta di quella realizzata.
Il caso più noto è quello della nota quotata di Credit Suisse denominata “VelocityShares Daily Inverse VIX Short-Term” (ticker XIV US) che dava all’investitore un rendimento pari all’inverso dell’andamento della volatilità. Con l’aumento della volatilità la nota ha cominciato a perdere valore. Il prezzo è passato da un massimo di 146.44 del 11 gennaio, a 92.67 venerdì 2 febbraio, 79.65 lunedì 5 per crollare il giorno 6 a 5.93. La nota è stata successivamente liquidata.
Si trattava (e si tratta tutt’ora) di prodotti con forte leva che non sono rappresentativi delle strategie tradizionali di vendita di opzioni.
In realtà, se osserviamo l’andamento dei due indici più noti constatiamo una correzione sì, ma di dimensione inferiore a quella dell’indice.
Dal 26 gennaio al 8 febbraio gli indici BXM (vendita di opzioni call coperte sull’indice S&P 500) e PUT (vendita di opzioni put sull’indice S&P 500) hanno avuto un calo rispettivamente del 7,64 e del 7,72% e nei giorni successivi hanno recuperato circa 7 dei punti percentuali persi.

Grafico 3

New Picture (1)

Insomma, questa piccola crisi ha fatto giustizia delle strategie più speculative con orizzonti brevissimi, ma non mette in discussione le strategie più consolidate.

Come si sono comportate le strategie “risk parity”?

Le strategie “risk parity” (insieme a quelle “trend following”) sono entrate nella discussione in due modi: in quanto possibili cause di accelerazione del ribasso, a causa della tendenza a vendere proprio quando la volatilità aumenta, ma anche come vittime, in quanto si tratta di strategie che soffrono i movimenti laterali del mercato.
Non siamo in grado di dire se abbiano aggravato il ribasso dei primi giorni di febbraio, ma è evidente che queste strategie l’hanno completamente subito.
Nel grafico seguente riproduciamo l’andamento di 10 fondi risk parity di diversi gestori (italiane: Duemme, Epsilon, Ersel; estere: Invesco, Raiffeisen, Lombard Odier, Lyxor, Paribas, Natixis, Vontobel) dall’inizio dell’anno (righe verdi) insieme all’andamento di un indice globale formato per il 40% dall’indice azionario MSCI World All Countries e per il 60% dall’indice obbligazionario Bloomberg Barclays Multiverse euro hedged (riga blu).
L’andamento dei 10 fondi è in linea con quello dell’indice Salient Risk Parity, che dai massimi del 26 gennaio ai minimi del 13 febbraio ha perso circa il 6%.
Dal grafico emergono due dati.

Grafico 4

New Picture (2)

Il primo è che le strategie risk parity sono state colpite in modo diretto dalla caduta dei mercati e non hanno offerto nessuna protezione.
La seconda è che hanno fatto peggio di una strategia passiva 40% azioni e 60% obbligazioni, sia nella fase di rialzo del mercato (cosa che sarebbe comprensibile, vista la pretesa “non linearità” di queste strategie) sia soprattutto nella fase di ribasso. Una spiegazione può essere nel fatto che, per la loro stessa natura, queste strategie assegnano alle obbligazioni un peso molto elevato e nel mese di gennaio i prezzi dei titoli di Stato USA sono scesi.
E al rischio di tasso è dedicato un recente articolo apparso sul blog di MSCI (3). L’articolo parte dal recente shock di mercato e va oltre, chiedendosi quale sia l’esposizione delle strategie “risk parity” a tre scenari, due realizzati (crisi del 2008 e rialzo della volatilità del 2018) e uno ipotetico, nel quale il tasso d’inflazione USA sale al 3%, le borse perdono l’1% e i rendimenti dei titoli di Stato americani salgono di 146 pb.
Dalle simulazioni di MSCI le strategie risk parity si sono comportate molto bene nella crisi del 2008, avrebbero un andamento simile a quello di un indice formato da 60% azioni e 40% obbligazioni nel “piccolo shock” del 2018 (confermiamo) ma andrebbero molto peggio nel terzo scenario. A causa della loro esposizione ai titoli di Stato a lunga scadenza americani queste strategie avrebbero una perdita di oltre il 10%, contro circa il 2% del portafoglio bilanciato. Va considerato, però, che questo scenario appare alquanto improbabile: se i tassi a lunga americani vanno a poco meno del 4,5% (dal 2,9% attuale) è difficile che le azioni perdano solo l’1%.

  1. http://www.strategiedinamiche.com/articles/?p=179
  2. http://libertystreeteconomics.newyorkfed.org/2017/11/the-low-volatility-puzzle-is-this-time-different.html
  3. https://www.msci.com/blog-posts/stress-testing-risk-parity
Posted in Buy write, Risk parity, Volatilità, Volatility | Leave a comment

Dividendi e collar: la strategia del fondo BNP Equity Europe Income Defensive

Il fondo comune d’investimento THEAM QUAT – EQUITY EUROPE INCOME DEFENSIVE, promosso da THEAM, società del gruppo BNP Paribas Investment Partners, (Ticker Bloomberg TQEEIIA LX) è un interessante esempio di utilizzo di strategie sistematiche per ottenere risultati di gestione più efficienti.
Il fondo mette in pratica due idee d’investimento: lo “smart beta” e la creazione di protezione del portafoglio con una strategia “collar”.
Il fondo è gestito combinando tre diverse strategie di gestione.
1. Investimento in un portafoglio di azioni europee con un tasso di dividendo elevato;
2. Vendita di opzioni call out of the money a breve scadenza sul portafoglio azionario;
3. Acquisto di opzioni put at the money a lunga scadenza su metà del portafoglio azionario.
La scelta di azioni con un elevato tasso di dividendo è motivata dall’obiettivo di massimizzare il rendimento corrente del portafogli, considerando che attualmente il dividend yield dell’indice STOXX Europe 600 è pari al 3,27% (3,29% per l’Euro STOXX 50), contro un rendimento del Bund a 10 anni del 0,438% e delle obbligazioni corporate investment grade in euro del 0,87%. Inoltre l’alto dividendo è un fattore di rischio che nel tempo ha offerto un rendimento corretto per il rischio superiore al mercato, ed ha molti punti in comune con due altri fattori, “value” e il “quality”.
La vendita di call ha il duplice obiettivo di contribuire ulteriormente al rendimento corrente (a prezzo di rinunciare ai guadagni in caso di esercizio) e di finanziare l’acquisto delle opzioni put. E’ costruita in modo da ridurre la probabilità di esercizio e da massimizzare il premio per unità di tempo, perciò il prezzo di esercizio è superiore del 3% al prezzo a pronti e la durata è di soli 15 giorni lavorativi. Per ridurre il rischio di timing (cioè di vendere le opzioni nel giorno sbagliato) ogni giorno viene venduto un quindicesimo della posizione totale.
L’acquisto di put ha lo scopo di ridurre il rischio di perdite del portafoglio. Le opzioni comprate sono costose perché la durata è lunga (un anno, 250 giorni lavorativi) e il prezzo di esercizio è uguale al prezzo a pronti. Per ridurre il rischio di timing ogni giorno viene comprato un duecentocinquantesimo del totale da proteggere, che è pari alla metà del valore del portafoglio.
Da giugno 2013 a settembre 2017 il fondo Theam Quant Equity Europe Income Defensive ha avuto un rendimento 7,02% contro un rendimento dell’indice STOXX 600 Europe del 8,15 %, ma con una volatilità decisamente più bassa (7,71% vs 13,37%). L’indice di Sharpe del fondo è pari a 0,90 e quello dell’indice di borsa 0,61. Il confronto rimane favorevole anche confrontando il rendimento del fondo con quello dell’indice MSCI Europe High Dividend Yield, che descrive l’andamento di un paniere di azioni europee selezionate all’interno dell’indice generale per la dimensione e la qualità del dividendo: questo indice ha avuto un rendimento medio del 8,93% con una volatilità del 11,72%, e un indice di Sharpe pari a 0,76, perciò decisamente migliore del dell’indice STOXX 600 ma comunque inferiore a quello del fondo.
Da un’analisi di regressione dei rendimenti del fondo rispetto a questi indici emergono però due dati.
Il primo è una conferma che è più appropriato mettere a confronto il fondo con l’indice MSCI HDY anziché con lo STOXX 600. Il beta dei rendimenti mensili rispetto all’indice MSCI è pari a 0,52 (in linea con la politica di gestione che dichiara di coprire circa il 50% del patrimonio) , mentre quello verso lo STOXX 600 è minore, pari a 0,36.
Il secondo è che, mentre il valore del beta è elevato in tutti e due i casi, il maggior rendimento generato dal fondo dopo avere tenuto conto dell’esposizione al mercato (l’alfa) è elevato (4,1% se si considera lo STOXX 600, 2,33% se si considera il MSCI) ma non è statisticamente significativo.
Insomma, dopo oltre quattro anni di attività non siamo in grado di dire se i buoni risultati del fondo sono attribuibili alla sola strategia “high dividen yield” o anche alle vendite e acquisti di opzioni per realizzare il “collar”.

Posted in High Dividend Yield, Zero cost collar | Leave a comment

La paura è ai minimi, ma gli investitori non ci credono

Nelle ultime settimane la misura di volatilità dell’indice azionario S&P 500 (l’indice VIX) è scesa sotto 10.
Si tratta di un valore eccezionalmente basso, se paragonato a una media di 19,46 nel periodo di quasi 28 anni nel quale è stata calcolato questo indicatore.
Su 6.988 giorni, la VIX è stata al disotto di 10 solo 30 volte, delle quali 22 nel 2017, 3 nel 2006, 1 nel 1994 e 3 nel 1993.
Ricordiamo che la VIX è un indice di volatilità pubblicato dal CBOE, che viene ricavato dal prezzo delle opzioni con circa 30 giorni di durata massima e calcolando la volatilità implicita in questi prezzi.
L’indice è stato soprannominato “fear index” o “indice della paura” sia perché la domanda di opzioni è legata al bisogno di protezione, sia perché fasi di elevata volatilità sono state associate, in passato, a cali del mercato azionario.

Picture2
Perché una misura così bassa? Siamo di fronte a qualche cambiamento strutturale o alla prova che questo indice non è un indicatore affidabile di volatilità?
Per ora no, sostiene George Bonne in un post nel sito MSCI (1).
Innanzitutto l’andamento dell’ultimo anno conferma il dato strutturale del “premio di volatilità” per cui quella misurata dall’indice VIX è superiore a quella effettiva realizzata.
Il valore bassissimo del VIX non è un’anomalia, ma riflette i valori eccezionalmente bassi della volatilità dell’indice S&P 500, misurata come deviazione standard dei rendimenti passati.
Ma se il premio per la volatilità non cambia, perché la volatilità è bassa? Una spiegazione possibile sta nel calo delle correlazioni fra i diversi titoli che compongono l’indice. La volatilità dell’indice può essere divisa in due componenti: la rischiosità di ciascun titolo e le correlazioni a due a due fra tutti i titoli che compongono l’indice. Come si può vedere dal grafico seguente, questa seconda componente è scesa nel 2017 a valori minimi toccati solo nel 2007 e nel 2000/2001.

Picture3
Nonostante la volatilità, realizzata e attesa, sia scesa ai minimi, un’altra misura di rischio, la cosiddetta “skew” (asimmetria) ha continuato a salire e negli ultimi mesi la sua media mobile a un anno ha raggiunto il livello massimo dal 1990.

Picture1
L’indice SKEW, anch’esso pubblicato dal CBOE, è calcolato dalla differenza fra la volatilità implicita delle opzioni “out of the money” e di quelle “at the money”. Maggiore è questa differenza, maggiore è la domanda verso opzioni (put) il cui prezzo di esercizio è lontano dal prezzo a termine e che sono perciò meno costose in percentuale del prezzo del titolo da proteggere. Queste opzioni, soprattutto su indici, sono cercate dagli investitori istituzionali per proteggersi dai cosiddetti “eventi di coda”, cioè cali improvvisi ed elevati dei mercati in misura superiore a quanto sarebbe coerente con una distribuzione normale dei rendimenti.
In un secondo post sullo stesso blog di MSCI (2), George Bonne osserva che l’aumento dell’indice SKEW è associato all’aumento dei rischi geopolitici negli ultimi 18 mesi (Brexit, elezioni francesi, crisi della Corea del Nord).
Insomma, nonostante un mercato insolitamente tranquillo gli investitori continuano a comprare protezione e sono disposti a pagare prezzi sempre più alti, se non in termini assoluti, almeno in termini relativi.

  1. Why is “fear” missing from the “fear index”?, 11 maggio 2017
  2. Downside protection? Fear of extreme events rises further, 13 settembre 2013

 

Posted in Uncategorized | Leave a comment

Quanto costano i collar “a costo zero”

Una strategia piuttosto comune di protezione del portafoglio è quella cosiddetta del “collar a costo zero”. La strategia consiste nel comprare una opzione put sulla componente rischiosa del portafoglio finanziandola con la vendita di una opzione call. Ovviamente, perché questa operazione non si traduca in una semplice vendita a termine il prezzo di esercizio della call viene posto a un livello più alto del prezzo a pronti. Poiché a questo punto il ricavato dalla vendita è inferiore occorre fare lo stesso con il prezzo di esercizio della put.
Purtroppo tutto il mercato cerca di fare la stessa cosa, e le pressioni relative di domanda e offerta fanno sì che le volatilità implicite nei prezzi siano più basse nelle call vendute e più alte nelle put comprate.
Così per avere un collar a costo zero occorre accettare un prezzo di esercizio della put più basso. Ad esempio, al 6 luglio, dalla vendita di un’opzione call a 1 mese 3,4% out of the money (2160) si ricavano circa 5,3 punti di indice, con una volatilità implicita di poco superiore al 10%. Con quella cifra si comprava un’opzione put con un prezzo di esercizio 8% al disotto del prezzo a contanti (1918) con una volatilità implicita di circa il 20%.
Per capire l’efficacia o meno di una strategia di questo tipo si può analizzare il comportamente di un indice elaborato dal Chicago Board of Exchange, il “95/110 Collar Index”. L’indice descrive il valore nel tempo di una strategia che a ogni fine mese compra l’indice S&P 500 e una opzione put a tre mesi al 95% di strike, e nei due mesi successivi vende altre due volte una opzione call sull’indice con durata un mese e strike 110%. La strategia non è “a costo zero” e alle condizioni di mercato di inizio luglio costava circa 1,7% ogni tre mesi, cioè il 6,60% all’anno.
In un recente articolo sull’efficienza delle strategie collar (1) Israelov e Klein utilizzano questo indice, ma osservano che risultati analoghi si ottengono simulando collar costruiti in modo da essere effettivamente “a costo zero”.
La serie dell’indice è disponibile dal gennaio 1988. In questi 28 anni e mezzo la strategia Collar 95/110 ha avuto un rendimento medio annuo del 6,21% con una volatilità del 10,36%. L’indice SP 500 Total return ha avuto rendimento maggiore, 9,64% e con una volatilità proporzionalmente meno grande (14,39%). Il valore dell’indice di Sharpe del semplice investimento nell’indice è perciò superiore a quello della strategia collar (0,46 vs 0,31) che risulta perciò, in un contesto di valutazione lineare, meno efficiente.
La strategia ha un beta rispetto all’indice di mercato di circa 0,65, cioè espone a circa due terzi del mercato azionario.
Come spiegano Israelov e Klein, questo valore del beta discende direttamente dalle operazioni sulle opzioni perché sia la somma spesa per comprare l’opzione put sia il limite superiore ai guadagni imposto dalla vendita della call riducono l’esposizione al mercato azionario, e questo indipendentemente dal fatto che a causa delle diverse volatilità l’opzione put sia pagata cara e l’opzione call sia venduta male. Israelov e Klein osservano anche che si avrebbero risultati storici simili se
Il costo della strategia emerge chiaramente confrontando i risultati nel periodo con quelli che si sarebbero avuti mantenendo questa esposizione al mercato azionario e investendo la parte rimanente in depositi a breve. Il rendimento della strategia bilancuata è pari al 7,61% annuo, cioè 1,40% in più.
Poiché “compra” volatilità, cioè spende sistematicamente per comprare la protezione, la strategia ha un rendimento mensile mediano proporzionalmente più basso (0,67% contro 1,29% del S&P500) e un numero di mesi con risultato negativo più elevato (140 contro 121).
Allo stesso tempo, però, si nota la capacità della strategia di produrre la “convessità” di risultati che ci si aspetta.
Come si può vedere dalla tabella, il drawdown massimo è stato pari al 35,47% contro il 50,95% del S&P 500. Tutte e due le strategie presentano una asimmetria (“skewness”) negativa, ma quella collar lo è molto meno dell’investimento nell’indice. Il numero dei mesi in perdita è maggiore, ma la perdita media è oltre un punto percentuale minore che per l’indice di borsa (-2,38% contro -3,42%). Al contrario, poiché i prezzi di esercizio delle call sono più elevati, il rendimento medio nei mesi positivi è più vicino a quello dell’indice (2,54% contro 3,18%).
Un altro modo per osservare la convessità della strategia è calcolare separatamente i beta nei mesi negativi e quelli nei mesi positivi. I due valori sono entrambi significativi e decisamente diversi: il beta nei mesi di rialzo del mercato azionario è pari a 0,71, mentre quello nei mesi di ribasso del mercato azionario è pari a 0,43.
CLL_SPX
Questo comportamento è però molto concentrato sulle perdite più grandi. Nei sei mesi in cui l’indice S&P 500 ha avuto una perdita superiore al 10%, la perdita media dell’indice è stata 13,06%, mentre quella della strategia è stata di -6,11, con un beneficio medio di circa il 7%. Nei 27 mesi in cui cui l’indice S&P 500 ha avuto una perdita compresa fra 5 e 10%, la perdita media dell’indice è stata del 6,96%, mentre quella della strategia è stata del 4,48%, con un beneficio medio di circa il 2,5%. Nei 100 mesi in cui l’indice S&P 500 ha avuto una perdita compresa fra 0 e 5%, la perdita media dell’indice è stata del 2,01%, e quella della strategia è stata pressoché identica (-2,02%).
In conclusione, la strategia produce il risultato atteso, ma a un costo elevato, che si ripaga solo in presenza di eventi eccezionali di mercato. Nell’articolo già citato, Israelov e Klein non escludono che si possano costruire strategie collar più efficienti di quella rappresentata dall’indice del CBOE, ma concludono che se si vuole ridurre il rischio del portafoglio è più efficiente abbassare la componente azionaria, e se si vuole incassare sistematicamente il premio per la volatilità basta limitarsi alla semplice vendita di call sulla componente rischiosa.

Silvio Bencini

  1. Israelov R. – Klein M. (2016) “Risk and Return of Equity Index Collar Strategies”, The Journal of Alternative Investments, Summer 2016, vol. 19
Posted in Zero cost collar | Leave a comment

Quanto conviene vendere volatilità? – 2

Anche sul mercato azionario dell’area euro sono disponibili, da alcuni anni, indici del valore di strategie sistematiche di acquisto o vendita di opzioni. L’indice di riferimento è il EURO STOXX 50 e le strategie disponibili sono quattro (1):

EURO STOXX 50 BUYWRITE (ticker Bloomberg SX5EBW) – La strategia consiste nell’acquisto dell’indice e nella contestuale vendita di una opzione call di durata un mese, con un prezzo di esercizio pari al 105% del valore dell’indice al momento della costruzione dell’operazione (nelle tabelle indicata come “Buy write otm”)

EURO STOXX 50 BUYWRITE (100%) (ticker Bloomberg SX5EBW2) – La strategia consiste nell’acquisto dell’indice e nella contestuale vendita di una opzione call di durata un mese, con un prezzo di esercizio uguale al del valore dell’indice al momento della costruzione dell’operazione (nelle tabelle indicata come “Buy write atm”)

EURO STOXX 50 PROTECTIVE PUT 80% 18M 6/3 (ticker Bloomberg SX5PP8T) – La strategia consiste nell’acquisto dell’indice e nel contestuale acquisto di un’opzione put con 18 mesi di durata e un prezzo di esercizio pari al 80% del valore dell’indice al momento della costruzione dell’operazione (nelle tabelle indicata come “Buy Put 80% otm”.

EURO STOXX 50 PUTWRITE (ticker Bloomberg SX5E3P) – La strategia consiste nella vendita di put sull’indice con un prezzo di esercizio pari al 95% del valore dell’indice al momento della costruzione dell’operazione e scadenza un mese e nell’investimento del collaterale in un deposito a tre mesi. Alla fine del mese l’opzione viene regolata e rinnovata. Eventuali flussi di cassa negativi vengono finanziati con prestiti a un mese.

Le due tavole seguenti mettono a confronto rendimento mensile annualizzato e volatilità passata delle diverse strategie con l’indice azionario.

Nel periodo più lungo (1999-2016) la strategia che ha avuto un rendimento più elevato è stata la “Buy Write” cioè la vendita sistematica di opzioni call sull’indice, con un rendimento di quattro punti percentuali superiore a quello dell’indice e una volatilità inferiore quasi della metà.

Immagine 1

In un periodo più breve (2007-2016) la strategia che ha dato i risultati migliori è la “Put write”, cioè la vendita di put sull’indice con investimento del collaterale in depositi. In questo arco di tempo le strategie di vendita di volatilità hanno rendimenti superiori all’investimento passivo nell’indice solo in due casi. La strategia peggiore è quella di acquisto di opzioni put di protezione all’investimento nell’indice, nonostante le opzioni acquistate siano “out of the money” del 20%.

Immagine 2

Questi risultati risultano più comprensibili osservando la serie storica delle volatilità dell’indice e delle opzioni.

Nel grafico 1 sono illustrati i livelli dell’indice VSTOXX della volatilità implicita a 1 mese dell’indice EURO STOXX 50 e il corrispondente valore della volatilità effettivamente realizzata dall’indice nei 21 giorni successivi, annualizzata. Come si può vedere i due indici si muovono insieme, ma in media la volatilità implicita è più alta di quella realizzata (4,14%).

Immagine 3

Per l’indice EURO STOXX 50 la differenza fra volatilità implicita nel prezzo delle opzioni a un mese e volatilità realizzata dal mercato è leggermente superiore a quella che si misura sul mercato americano con l’indice S&P 500 nello stesso periodo ( 3,72%) ed ha, come negli Stati Uniti, un trend discendente.

Come si può vedere dal grafico 2, questo trend si è rafforzato negli ultimi 2 anni, con la media mobile a sei mesi della differenza fra le misure di volatilità costantemente inferiore a 4,14 e inferiore a 3 nell’ultimo anno.

Immagine 4

Questa tendenza spiega perché nei due periodi le strategie di vendita di volatilità abbiano un rendimento non così nettamente superiore all’investimento passivo nell’indice rispetto al periodo più lungo.

  1. STOXX (2016) “STOXX Strategy Index Guide”, Aprile 2016
Posted in Buy write | Leave a comment

Quanto conviene vendere volatilità?

Com’è noto la volatilità implicita nei prezzi delle opzioni è più alta di quella effettivamente realizzata dal mercato azionario.

Questo fatto fa sì che le strategie di vendita di opzioni a fronte di posizioni in azioni siano diffuse fra gli investitori.

Ma quanto sono convenienti effettivamente?

Il CBOE produce da diversi anni indici che rappresentano l’andamento di alcune strategie che combinano l’investimento nell’indice S&P 500 e l’acquisto o la vendita di opzioni sull’indice stesso.

In un recente articolo (1) vengono esaminati i rendimenti delle strategie di vendita di opzioni su un periodo relativamente lungo, da giugno 1986 a dicembre 2015. Gli indici hanno date di lancio successive al 1986, e perciò gli anni precedenti sono stati ricostruiti utilizzando il database di prezzi delle opzioni del CBOE.

L’intervallo di tempo di quasi trenta anni comprende diversi periodi di elevata volatilità e forti ribassi (1987, 1990, 1998, 2000-2002, 2007-2008, 2011, 2015) e comprende (salvo i due anni 1984 e 1985) l’intero arco di tempo del ciclo di discesa dei tassi d’interesse.

Gli indici del CBOE, e le relative strategie esaminate, che rappresentano vendite di opzioni sono sei (fra parentesi il ticker Blooomberg e l’anno di lancio dell’indice) e hanno tutte un orizzonte mensile.

CBOE S&P 500 Buy Write Index (BXM – 2002) – La strategia consiste nell’acquisto dell’indice S&P 500 e nella contestuale vendita di un’opzione call at the money sull’indice.

CBOE S&P 500 30-Delta Buy-Write Index (BXMD – 2015) – La strategia consiste nell’acquisto dell’indice S&P 500 e nella contestuale vendita di un’opzione call sull’indice con un delta di 0,30 e perciò out of the money.

CBOE S&P 500 PutWrite Index (PUT – 2007) – La strategia consiste nella contestuale vendita di un’opzione put at the money sull’indice e nell’acquisto di buoni del Tesoro a breve per l’importo nozionale.

CBOE S&P 500 Iron Butterfly Index (BFLY – 2015) – La strategia consiste nella vendita di opzioni call e put at the money sull’indice e nel contestuale acquisto di opzioni call e put 5% out of the money.

CBOE S&P 500 Covered Combo Index (COMBO – 2015) – La strategia consiste nella vendita di opzioni call e put out of the money del 2% sull’indice e nel contestuale acquisto dell’indice a copertura della call e di buoni del Tesoro a copertura della put.

CBOE S&P 500 Iron Condor Index (BFLY – 2015) – La strategia consiste nella vendita di opzioni call e put out of the money sull’indice con delta 0,2 e nel contestuale acquisto di opzioni call e put out of the money con delta 0,05.

Come si può vedere dalla tabella nel periodo due strategie, la vendita di put (PUT) e la vendita di call out of the money hanno avuto un rendimento più elevato dell’indice S&P 500 (10,10 e 10,70% rispetto a 9,90%) con una volatilità inferiore (10,20% e 13,20% rispetto a 15,30%). Di conseguenza hanno valori di indice di Sharpe più alti (0,74 e 0,617 rispetto a 0,48).

Tavola 1

Le altre due strategie migliori in termini di indice di Sharpe sono la Condor (combinazione di call e put spread) e la Combo (nota come straddle). Da notare l’elevata correlazione con l’indice di tutte le strategie salvo Condor e Combo.

Tutte le strategie hanno avuto una perdita massima (maximum drawdown) inferiore, in valore assoluto, a quella dell’indice S&P 500 e hanno avuto perdite inferiori all’indice anche nel 2008.

Un altro recente articolo (2) estende questa analisi a un altro indice lanciato nel 2015, il CBOE S&P 500 One-Week PutWrite Index (WPUT). La strategia consiste nella vendita di una opzione put at the money di durata una settimana.

Il periodo di analisi è più breve, perché la storia di rendimento dell’indice della strategia settimanale parte solo nel 2006.

Tavola 2

Come si può vedere, in questo intervallo di tempo l’indice di borsa ha avuto un rendimento più elevato delle strategie di vendita di opzioni, ma è stato più volatile, perciò anche in questo caso i valori di indice di Sharpe delle strategie sono superiori, sia pure di poco.

Anche in questo intervallo si conferma la capacità di ridurre il drawdown delle strategie di vendita di opzioni, grazie al premio incassato ogni settimana o ogni mese. In media, il premio annuo ricavato dalla strategia PUT è stato pari al 24,1%, mentre quello sulla strategia WPUT è stato del 39,3%.

Tutto ciò, come detto all’inizio, è dovuto alla differenza fra volatilità effettivamente realizzata dal mercato e volatilità implicita nei prezzi delle opzioni quando si vendono.

Per misurare questa differenza Bondarenko mette a confronto la volatilità implicita delle opzioni (indice VIX) a ogni inizio mese con la volatilità effettivamente realizzata nel mese successivo dall’indice S&P 500. In media il valore dell’indice VIX è stato dal 1990 al 2015 pari a 19,8%, mentre la volatilità realizzata dallo S&P500 è stata del 15,50, con una differenza di 4,3 punti percentuali. Solo nel 2008 la volatilità del mercato è stata superiore a quella dell’indice: 35,2 contro 32,7%.

  1. Black K., Sazdo E. (2016) Performance Analysis of CBOE S&P 500 Options- Selling Indices” https://www.cboe.com/micro/buywrite/cboe-feb08-2016-kwc-ingarm.pdf
  2. Bondarenko O. (2016) “An Analysis of Index Options Writing with Monthly and Weekly Rollover”, http://papers.ssrn.com/sol3/Papers.cfm?abstract_id=2750188
Posted in Buy write, Buywrite, Uncategorized | Leave a comment

Quanto proteggono le strategie alternative?

La crisi dei mercati azionari nel mese di agosto è arrivata, come tutte le altre, del tutto inaspettata.
Come noto la causa scatenante è stata la svalutazione dello yuan, alla quale si è accompagnato un nuovo crollo del mercato cinese e delle altre borse asiatiche.
Di per se’ la svalutazione dello yuan è stata di piccola entità e finalizzata, negli annunci della banca centrale cinese, a favorire l’inserimento della moneta nel paniere dei Diritti Speciali di Prelievo gestito dal Fondo Monetario Internazionale ottenendo un pieno status di “moneta di riserva”.
La lettura che ne hanno dato i mercati è stata però diversa: la svalutazione è stata vista come una mossa del governo cinese per favorire le esportazioni, in un periodo nel quale l’economia sembra crescere a un tasso minore del previsto (cioè al disotto del 7%) e la credibilità delle autorità è stata messa in discussione dalla inefficacia delle misure dirigistiche di sostegno alle quotazioni di borsa. Non solo. L’opacità dei dati ufficiale induce molti a guardare misure più indirette ma meno manipolabili dell’andamento dell’economia (consumi elettrici, movimento delle merci e delle persone, importazioni di materie prime) e questi indicatori rappresentano un’economia che probabilmente sta crescendo meno del 5%.
L’economia cinese rappresenta il 15% del Pil mondiale, e con le sue importazioni di materie prime ha costituito la fonte principale di crescita per numerosi paesi produttori, perciò un rallentamento ha un impatto notevole sulla crescita mondiale. La situazione cinese si è inoltre inserita in un quadro nel quale la crescita dei paesi sviluppati si sta consolidando, ma sempre con numeri inferiori alle aspettative, tanto che da diversi mesi il Fondo Monetario e diversi osservatori parlano di un problema strutturale per l’Occidente di minor crescita, causato dal peso del debito e dall’invecchiamento delle popolazioni.
In ultimo, occorre ricordare la situazione di totale dipendenza dei mercati dalle banche centrali e dalla continua iniezione di liquidità. L’attesa di un aumento dei tassi della FED, a questo proposito, gioca in modo ambiguo: da un lato c’è il timore che un rialzo, anche piccolo (25 bp), abbia un impatto negativo sulla crescita americana (che peraltro ha avuto un ottimo secondo trimestre) e su tutti i paesi emergenti; dall’altro lato si auspica questa mossa come primo segnale di un ritorno alla normalità.
In questo contesto i mercati finanziari hanno registrato perdite notevoli, azzerando i guadagni da inizio anno o aumentando le perdite, nel caso dei paesi emergenti.
Rispetto a fine luglio il giorno 24 agosto l’indice azionario globale in euro perdeva il 14% e l’indice azionario dei paesi emergenti il 18%.
L’indice di volatilità della borsa americana è passato in pochi giorni da valori intorno al 15% a un massimo del 55% per stabilizzarsi intorno al 30%, valore ben superiore alla media dell’ultimo anno (23%). Oscillazioni analoghe ha avuto l’indice di volatilità delle borse dell’area euro.
In questo contesto di mercato ha destato sorpresa che alcune strategie di gestione costruite intorno all’obiettivo di un “ritorno assoluto” non solo non abbiano offerto la protezione attesa, ma abbiano anzi sofferto più di un normale portafoglio bilanciato (“Risk parity funds suffer cruel summer” Financial Times, 2 settembre 2015. “Risk parity, CTA Flows ‘Pose Risk for Fundamental Investors’, JP Morgan Says”, Barron’s, 27 agosto 2015).
Come noto le strategie a ritorno assoluto hanno avuto una notevole diffusione dopo le crisi di mercato del 2000-2002 e soprattutto dopo quella del 2008-2009, quando la caduta generalizzata dei prezzi di molte attività finanziarie apparentemente “decorrelate” ha portato a mettere in dubbio la capacità di riduzione del rischio della diversificazione e la sostenibilità delle strategie di gestione basate sul controllo del rischio relativo a un benchmark.
E’ utile ricordare anche su quali basi, comunque, le strategie “a benchmark”:
1. L’evidenza empirica mostra la difficoltà di anticipare gli andamenti dei mercati (“market timing”) e la tendenza di strategie attive ad essere dominate da strategie di allocazione passiva e ribilanciamento periodico;
2. L’attività sistematica di ribilanciamento consente all’investitore di beneficiare della volatilità a breve dei mercati (comprare quando gli altri vendono, vendere quando gli altri comprano).
3. L’orizzonte temporale più lungo offre la possibilità di sostenere le fasi prolungate sfavorevoli.
Con il termine “rendimento assoluto” si intendono diverse tecniche di gestione, che hanno in comune alcune caratteristiche:
– L’obiettivo di rendimento è assoluto (tasso a breve più uno spread) anziché relativo a un benchmark allocativo;
– Il vincolo assegnato al gestore è di rischio totale (volatilità) anzichè relativo (la “Tracking errore volatility”);
– Il gestore ha un limite massimo di perdita accettabile, oltre la quale il rischio del portafoglio deve venire ridotto.
Alla base di questo stile di gestione vi sono diversi modelli, riconducili sostanzialmente a due idee:
– Variazioni di volatilità anticipano variazioni in senso opposto dei prezzi, perciò ribilanciare le diverse componenti del portafoglio in funzione inversa al loro contributo al rischio ne protegge il valore in caso di discesa e li rende mediamente più efficienti (strategie cosiddette “risk parity”);
– Nel breve periodo i mercati seguono “trend” e cioè a variazioni positive dei prezzi seguono variazioni positive e viceversa. Utilizzando questo approccio su più asset class (la strategia è nata su futures delle materie prime e si è poi estesa ai mercati tradizionali) e combinandolo con una adeguata gestione del rischio si ottengono nel lungo periodo risultati mediamente più favorevoli di una strategia bilanciata passiva (strategie cosiddette “trend following”).
L’assunto è che sia le variazioni di volatilità, sia le variazioni nei trend siano sufficientemente graduali da dar tempo al gestore di ribilanciare la posizione e consistenti nel tempo, in modo da evitare aggiustamenti troppo frequenti.
Per capire l’efficacia di queste strategie abbiamo messo a confronto un benchmark bilanciato molto diversificato (50% azioni globali, 50% titoli di Stato e obbligazioni anche sub investment-grade) con tre indici (fra i numerosi possibili) costruiti per rappresentare il rendimento di strategie quantitative, uno per le strategie “trend following” e due per le strategie “risk parity” in diversi periodi di mercato negativo.
Come si può vedere dai grafici 1 e 2 queste strategie si sono mostrate estremamente efficaci nelle crisi del 2000-2002 e del 2007-2008.

Grafico 1 – Periodo 2000 – 2002
GRAFICO 1

Grafico 2 – Periodo 2007 – 2008
GRAFICO 2

Un altro episodio nel quale alcune di queste strategie hanno protetto il patrimonio è stata la crisi del 2011, anche se in questo caso osserviamo una prima importante differenza: le strategie “risk parity” hanno successo, mentre le strategie “trend follwing” sono prese completamente alla sprovvista dal rimbalzo dei mercati azionari dopo il crollo di luglio-agosto.

Grafico 3 – 2011

GRAFICO 3

Il caso del 2013 è invece simile a quello attuale. Come si ricorderà l’annuncio dell’intenzione della FED di ridurre gradualmente il “Quantitative Easing” provocò una caduta generalizzata e improvvisa dei prezzi di tutte le asset class soprendendo sia i gestori “risk parity” sia i gestori “trend following”. Come si può vedere dal grafico 4 il portafoglio bilanciato subisce perdite marginali fra aprile e giugno, ma poi recupera, mentre le altre strategie subiscono perdite, contenute nel caso dell’indice risk parity di Merrill Lynch, elevate nel caso dell’indice trend following (in questo caso le perdite sono accentuate dalla leva finaziaria).

Grafico 4 – 2013

GRAFICO 4

Osservato in questa prospettiva temporale, quanto è accaduto nel corso dell’estate 2015 non sorprende. Le strategie alternative hanno seguito positivamente il trend dell’inizio dell’anno, ma nella seconda parte hanno subito l’andamento dei mercati.

Grafico 5 – 2015

GRAFICO 5

In questi anni, dunque, le strategie “alternative” si sono dimostrate valide in presenza di trend prolungati di ribasso, ma non hanno protetto il valore del portafoglio durante crisi di mercato improvvise e brevi. E’ probabile che questo fatto sia dovuto anche alla grande diffusione che hanno avuto e dunque alla tendenza dei gestori a operare nella stessa direzione e nello stesso momento, il che produce proprio quegli aumenti improvvisi di volatilità che le rendono inefficaci.
Per questo motivo è ragionevole la strada seguita da numerosi grandi investitori, di affiancare, a un nucleo centrale di gestioni “a benchmark”, mandati a “ritorno assoluto”, anche con profilo di rischio elevato come quelli “trend following” con leva finanziaria, ma effettivamente decollati.

Posted in Risk parity, Trend-following | Leave a comment